Assassin's Creed 1: la vera forma della grandezza
Sab, 18 Maggio 2014


Alla fine di questa generazione di console, volendo elencare i titoli che hanno lasciato un segno nel mondo del gaming, non si può non inserire il primo capitolo della serie di Assassin’s Creed. Ma cosa significò ai tempi? Quali erano le scelte di design, narrative e stilistiche, che lo rendevano, già nel 2007, un titolo originale e complesso? Innanzitutto, il primo Assassin’s Creed è uno dei giochi dove la volontà di narrare, e farlo bene,emerge più di quanto sia possibile fare con qualsiasi altro capitolo della serie.

Ci tengo a precisare: raccontare bene è diverso dal voler raccontare qualcosa di complesso, magari sviluppato in svariati atti e con decine di plot twist. Spesso, soprattutto nel mondo videoludico, la frase di Francesco De Sanctis “la semplicità è la forma della vera grandezza”, trova inaspettatamente conferma. In che modo narra bene, dunque, il primo Assassin’s Creed? O meglio (vista comunque la presenza di alcuni difetti), come fa a farlo in modo migliore dei capitoli successivi? Lo fa, come detto prima, ricorrendo ad alcune scelte intriganti dal punto di vista della scrittura e del puro game design, scelte abbandonate o non presenti nei capitoli successivi. Innanzitutto, non si può non evidenziare quanto l’idea sulla quale si basa parte della serie, ossia la possibilità di ricorrere all’utilizzo di macchine (Animus) che consentano di rivivere ricordi di antenati appartenenti ad epoche diverse, sia già di per se qualcosa che rafforza enormemente il contesto narrativo e la possibilità di relazionarsi più “liberamente” al mondo di gioco. Non possiamo non notare, infatti, il parallelismo tra il videogiocatore e Desmond. Costretto ad interagire con un mondo fatto di obiettivi, regole, schemi e limitazioni, Desmond diventa un vero e proprio videogiocatore alle prese col suo personalissimo videogame, anche se, come tutti sappiamo, spinto da ben altre motivazioni ed interessi rispetto ad ognuno di noi. Il gioco ci spiega immediatamente che avremo a che fare con contesti non del tutto logici, ma soprattutto coerenti. Ecco quindi che persino l’esistenza di un bug, di contesti irrealistici e di IA non sempre brillanti, possono essere comprese poiché errori di una macchina. Non solo: l’Animus e l’utilizzo della memoria genetica permettono di ricorrere a delle scelte stilistiche e narrative che rimangono ancora oggi originali e ricercate.


Uno dei maggiori problemi degli Open World, secondo molti critici, è il fatto che in realtà sono delle enormi scatole in cui giocare in libertà. Da qui l’utilizzo del termine sandbox. In Red Dead Redemption, oceani infiniti e vette chilometriche ci costringono dentro la zona di gioco. Lo stesso si può dire di ogni GTA, con le enormi distese oceaniche che oramai caratterizzano la serie. Assassin’s Creed utilizza un espediente molto interessante per giustificare narrativamente questo tipo di problemi. Ogni volta che la macchina lo riterrà opportuno, in base al contesto narrativo, alcune zone verranno sbloccate, e solo in quel caso potremo accedervi e completare ciò che ci verrà richiesto. Non solo: una volta terminate le “espansioni” del mondo di gioco, uscire fuori dai limiti imposti comporterà la desincronizzazione. Non perché il gioco abbia stabilito questa regola, ma perché la macchina sa che, in quel periodo e in quel contesto, Altaïr non avrebbe agito come invece stiamo facendo noi. Limitare la varietà e la libertà in funzione di una narrazione più coerente e dal ritmo più serrato, senza dover ricorrere però a meccaniche diverse da quella dell’Open World, come hanno fatto studi come Naughty Dog o Ninja Theory. Sulle stesse basi, viene giustificato l’HUD, a partire dalla vita fino ad arrivare alle indicazioni e ai suggerimenti che il gioco ci darà durante il corso del gioco.
Il primo Assassin’s Creed, inoltre, rimane il capitolo dove la progressione del personaggio avviene in maniera non solo più decisa, ma anche più coerente e credibile.


Facendo parte dell’Ordine sin dalla nascita, e dopo essere stato severamente punito da Al Mualim (per usare un eufemismo), Altaïr segue rigidamente il Credo. Cosa comporta questo, nel gameplay? Ad ogni azione che rispecchia il Credo e i suoi dettami, verremo ricompensati da Al Mualim con una nuova arma o un miglioramento della stessa. Non potremo espandere e completare il nostro arsenale derubando e saccheggiando, perché il nostro percorso di redenzione deve avvenire così come il Credo impone. Cosa che verrà totalmente persa nel corso dei capitoli precedenti, dove per qualche strano motivo non possiamo derubare qualche armaiolo e appropriarci delle numerose armi dalla distanza che offrono le botteghe italiane. Per inciso, questa scelta narrativa e di design garantisce anche l’assenza di uno di quei fastidiosi “gameism” tipici della passata generazione, ossia un inventario infinito, dove ogni personaggio che utilizziamo porta con se decine di armi, proiettili, molotov e corazze. Lo ripeto: sacrificare la varietà in funziona della coerenza e della credibilità. Tranne le pessime missioni di cattura delle bandiere, anche le missioni secondarie presentano delle interessanti capacità narrative. Aiutare la popolazione non è utile solo a far partire una cinematica dove Ezio parla ai fiorentini, ma permette di usufruire di tutto il supporto che il popolo può darti, rallentando le guardie, ad esempio, o utilizzando i monaci come mezzo per superare i posti di blocco (nella sua assurdità visiva, bisogna ammetterlo).
L’abbandono di questa meccanica fino al terzo capitolo della serie, è qualcosa che ancora non riesco a spiegarmi. Ovviamente, anche la verticalità della mappa da gioco è una caratteristica della serie di Assassin’s Creed, peculiarità questa che comporta un’estensione minore della mappa, ma anche una serie di approcci pressoché illimitati alle varie missioni, già ai tempi approcciabili in modi diversi (formula poi potenziata in modo più o meno determinante in ogni capitolo della serie). Anche i dialoghi e le frasi dei cittadini aiutavano il giocatore a sentirsi partecipe di un universo più ricco di quello che, a primo impatto, poteva sembrare. Dialoghi inoltre più spessi e incisivi di quelli riguardanti Zia Funda e Messer Giraldi dei capitoli successivi. Infine, la scelta di non ricorrere ad un quantitativo di cinematiche estremamente corposo (come avverrà dal II in poi), permette al giocatore di rimane in costante controllo del suo avatar, sebbene con notevoli limitazioni (ricorderete tutti la possibilità di muoverci durante gli splendidi dialoghi con Al Mualim, ma di essere fortemente limitati dall’impostazione della videocamera). Sono dunque molti gli elementi che rendono ancora oggi originale e innovativo, oltre che estremamente coraggioso, il primo capitolo della serie targata Ubisoft. E sono ancora di più gli elementi che, in positivo o in negativo, sono stati aggiunti o abbandonati nel corso dei capitoli successivi. Ciò che emerge chiaramente, però, è che col primo capitolo Ubisoft Montreal si sia posta chiaramente l’obiettivo non di divertire attraverso la varietà, ma di intrattenere con la narrazione e il ritmo. E a giudicare dal successo di pubblico e critica che ebbe il primo Assassin’s Creed, sembra esserci riuscita.





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