Dissonanza ludonarrativa: quando i dettagli fanno la differenza
Sab, 1 luglio 2014
Quando si valuta un gioco, bisogna considerare l’insieme delle sue parti e non bisogna scindere ciò che narrativamente emerge dal gameplay rispetto a quello che viene narrato dalle cinematiche, dai testi o dai file audio. Quando emergono dei contrasti e delle incoerenze narrative tra le varie parti e i vari momenti di cui è composto un videogame, in termini tecnici si parla di dissonanza ludonarrativa.
Vorrei soffermarmi con voi su questo tema, esaminando alcuni capitoli della serie di Assassin’s Creed da questo punto di vista, per capire in che modo alcune scelte di design abbiano aiutato o meno la credibilità e la coerenza strutturale del gioco. Come ho già detto in un altro articolo, personalmente trovo che, dal punto di vista narrativo, il primo Assassin’s Creed sia, ancora oggi, insuperabile. Altair è un assassino e questo è ciò che ci viene permesso di fare. L’Animus ci impedisce di uccidere degli innocenti e il level design del gioco ci permette quasi sempre di eliminare solo l’obiettivo che ci viene richiesto. I soldati, prima di attaccarci e inseguirci senza sosta, ci “suggeriscono” bruscamente di scendere dai tetti o allontanarci immediatamente da certe zone. Non siamo Niko Bellic, non siamo John Marston, non siamo Booker DeWitt o Joel, siamo un assassino con un compito ma, soprattutto, con un Credo. La creazione e l’ideazione del Credo permettono non solo di modellare il personaggio di Altair secondo degli schemi ludici quasi perfetti ma sono contemporaneamente un contratto ludico e narrativo che il gioco sigla con noi. Dovremo agire secondo il Credo, Con il secondo capitolo del brand, Assassin’s Creed II, si decide di rinunciare ad una serie di caratteristiche ed elementi peculiari e intelligenti del primo episodio, in favore di una maggiore varietà e di un comparto narrativo più libero dal gameplay e, di conseguenza, più “spesso” nelle cinematiche, nei Glifi e nei dialoghi. “Quando un gioco vuole inserire pathos o della filosofia nel suo svolgimento, solitamente lo fa in una cinematica. Nel corso dei decenni, questa restrizione ha avuto la sfortunata conseguenza di dividere gli interessi e le priorità dei game designer e degli scrittori in campi separati - spesso lavorano in tandem, ma raramente sugli stessi problemi.” Questo è uno spezzone di un articolo ben più corposo e articolato di Darby McDevitt su Gamasutra, nel quale evidenzia come oggi un videogioco sia programmato in parti, alcune dedicate al gameplay ed altre alla narrazione. Tali parti vengono, quindi, costruite sin dall’inizio come sessioni a se stanti mentre, in realtà, dovrebbero poggiare l’una sull’altra, completandosi a vicenda.
Se non possiamo superare questa contraddizione persistente, le trame dei videogiochi rimarranno difficili da prendere sul serio, perché anche se queste storie diventano più serie, il gameplay rimane ridicolmente indulgente. Nella vita e in tutti i migliori esempi di letteratura e cinema, la morte è un evento tragico e sfortunato, e nella maggior parte dei casi rappresenta una grande perdita o un fallimento. Ma nei videogiochi – se non succede durante una cutscene- la morte è comune e d’impatto come uno starnuto, ed è solitamente causa di festeggiamenti. Il trionfo di una volontà su un’altra. Cosa devono pensare i giocatori quando i videogiochi cercano di offrire allo stesso tempo una storia tragica e pesante ed eventi fottutamente divertenti?” Come esempio di videogioco che presenta una forte dissonanza tra cinematiche e gameplay, Darby McDevitt, oltre a titoli molto apprezzati dalla critica come Red Dead Redemption o Uncharted, porta ad esempio proprio Assassin’s Creed II. Lo scrittore di Revelations e Black Flag, tra gli altri, evidenzia come Ezio, personaggio che fa del suo rifiuto dell’omicidio e della morte una bandiera ideologica, sia in grado nelle sessioni di gameplay di massacrare l’intero esercito italiano senza battere ciglio. Cosa ulteriormente accentuata, secondo il sottoscritto, da un level design molto più accondiscendente del primo capitolo in tal senso e che ha spesso favorito l’assalto frontale rispetto ad uno stealth pianificato con più cura. Non è un caso che il secondo capitolo sia stato più apprezzato rispetto al primo, offrendo, come detto, molti più “eventi fottutamente divertenti” rispetto ad un gameplay maggiormente incentrato sulla fuga e sullo stealth. Non è però solo la violenza a divenire un elemento di forte contrasto tra narrazione e gameplay. Le attività di Ezio non hanno riscontro sulla popolazione che non evolve in alcun modo neanche alla fine del gioco, rimanendo sostanzialmente identica sia sotto il giogo templare, sia dopo la liberazione. Nonostante numerosi banditori urlino a squarciagola la presenza di un assassino in città e nonostante numerosissimi manifesti (sebbene piazzati in luoghi inaccessibili anche a delle aquile reali) mostrino chiaramente l’immagine dell’assassino fiorentino, nessuno ci individuerà mai. Il mondo di gioco non reagisce rispetto alle azioni del giocatore le quali sono, invece, decisamente influenti in senso politico e sociale nelle cinematiche. Questa incongruenza era presente anche nel primo capitolo della serie ma risultava meno evidente per l’assenza di tutti questi elementi che dovrebbero, invece, avere delle conseguenze sostanziali sul gameplay (non è sufficiente l’abbassamento del livello d’allarme, a mio parere). In che modo può la scrittura risolvere alcuni di questi problemi? Personalmente, trovo alcune scelte (come quella dello sviluppo del personaggio di Assassin’s Creed 3) più coerenti da questo punto di vista. Connor, infatti, sfrutta il Credo e le sue azioni hanno comunque più senso di quelle di un ragazzino fiorentino che, dopo un po’ di addestramento con lo zio, diventa uno spadaccino provetto. La violenza e il modo di agire di Connor sono dettate, infatti, da una forza d’animo senza pari nei protagonisti della serie e il suo lungo e completo addestramento lo rende un abilissimo combattente, soprattutto grazie all’influsso dei geni dei CVP. Per Edward, protagonista di Black Flag, il discorso può essere similare. Un uomo che fa del Credo un mezzo, non uno scopo. In questo caso, il gioco ci chiede di stipulare un contratto ben diverso da quello del primo capitolo, ma anche diametralmente opposto
Questi dettagli, per quanto possano sembrare piccolezze, sono in realtà particolarità di molti dei videogiochi di oggi che puntano ad una narrazione più semplice e aperta, per tutti insomma, a fini commerciali invece di concentrarsi su qualcosa dal contenuto più ricco e soprattutto credibile. Non solo. Come detto anche da Colin McComb, uno dei nomi più importanti dietro l’acclamato Planescape Torment, uno dei videogiochi narrativamente più complessi di sempre, ogni videogioco deve giungere a determinati compromessi, per rispettare quello stesso contratto ludico che al contrario il giocatore può stracciare in ogni momento e a suo piacimento. Parlando di Assassin’s Creed, McComb si è chiesto se davvero, pur di raggiungere una credibilità e coerenza narrativa maggiore, vogliamo che a metà gioco le guardie sappiano riconoscere immediatamente l’assassino per via delle attività dei banditori e dei manifesti e se, ludicamente parlando, può essere accettabile trasformare un action adventure in uno stealth puro solo per esigenze narrative. La risposta che si è dato è negativa. Ciò che sicuramente mi sento in grado di affermare riguardo la serie di Assassin’s Creed è che quest’ultima rimane ancora oggi originale e complessa rispetto al panorama ludico dei Tripla A perché l’attenzione alla narrazione non la si può notare solo sommando le ore di cutscenes presenti nei vari capitoli, o il numero di Glifi e file audio presenti in ogni nuovo episodio ma anche perché sono sempre più evidenti i tentativi di far cooperare narrazione e gameplay, rendendoli non solo parti a se stanti ma un unico grande elemento della serie.
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